Consorzio di Tutela
Olio Extravergine di Oliva Veneto

DOP

 

Denominazione  
d'Origine Protetta 

olio veneto dop / Cenni storici

 

 

OLIO EXTRA VERGINE DI OLIVA “VENETO”

CENNI STORICI

 

          E’ noto che gli antichi Romani, quando conquistavano nuovi territori, ne assegnavano gran parte agli stessi soldati che avevano contribuito alla conquista, affinché li coltivassero.

 

          E’ quindi molto probabile che la coltura dell’olivo nel Veneto e, in particolare nel Veronese, sia proprio stata introdotta dai coloni romani.

 

          Per trovare, però, notizie certe dell’esistenza dell’olivo nel Veronese bisogna giungere all’Alto Medio Evo.

 

          In Valpolicella, in Valpantena, in Val d’Illasi non poche sono le aree in cui la buona esposizione e la protezione delle correnti fredde del Nord hanno consentito una progressiva espansione dell’olivo, che poi si è esteso alle colline vicentine fino a Pove del Grappa, a quelle asolane e alle pendici dei Colli Berici ed Euganei.

 

          Per quanto riguarda la zona di Pove del Grappa (Vicenza) risulta che la presenza dell’olivo viene ricordata fino dal 1263, in un inventario delle proprietà terriere di Ezzelino da Romano, mentre sembra che nel ‘400 “l’olivo spremuto dai torchi povesi si aggirasse intorno ai 6 quintali”.

 

          Dall’epoca romana ad oggi l’olivicoltura veneta ha subito alterne vicende: da momenti di sviluppo, favoriti dall’interesse delle grandi proprietà ecclesiastiche verso un prodotto molto utile non solo come alimento, ma anche per l’illuminazione oltre che per le esigenze del culto, a momenti di crisi determinati dalle importazioni della Repubblica Veneta dai territori dell’Italia Centrale e Meridionale; tutto ciò senza contare gli effetti del clima che periodicamente, come avvenne a più riprese durante il XVIII e XIX secolo, provocava la morte di un’altra percentuale di alberi per le forti gelate invernali.

 

          Le successive riprese sono state talora ostacolate dalla preferenza accordata dagli agricoltori ad altre colture di volta in volta più redditizie: così, per esempio, nel secolo XIX la coltura della vite e del gelso fu preferita a quella dell’olivo, tanto che l’olivicoltura locale si ridusse sensibilmente in tutto il territorio, con la conseguente chiusura di numerosi frantoi.

 

          Una certa ripresa si verifica dopo la prima guerra mondiale e si accentua durante la seconda anche per iniziative della Cassa di Risparmio di Verona.

 

          Più tardi, grazie anche ad una legge (n° 839 del 26 luglio 1956) che concede specifici benefici, le piantagioni riprendono con buon ritmo, tanto che tra il 1956 ed il 1962 si stima che siano andate a dimora nel territorio veneto circa 75.000 piante d’olivo.

 

          Ad ogni modo la marcia dell’ulivo[1], muovendo dal Levante e guadagnando sempre più profondamente l’entroterra mediterraneo fino a raggiungere la Provenza, le rive del Garda e le colline venete, è indubbiamente l’occasione suscitatrice di una ben precisa forma di civiltà: si consideri il significato dei provvedimenti legislativi[2] che ruotano intorno all’olio o si pensi ancora all’importanza concreta che per lunghi secoli gli viene attribuita quale merce di scambio privilegiata.

 

          Questa marcia di espansione, arrestata a sud dalle sabbie desertiche, trova poi proprio nella direttiva del nord e dell’ovest le condizioni più favorevoli per veicolare, insieme all’ulivo, i motivi più profondi della cultura cristiana e classica.

 

          In questa prospettiva gli ulivi del Veneto acquistano un significato tutto particolare.

 

          Assai celebri erano le olive di Verona[3] e prezioso era l’olio, onore di ogni mensa, soprattutto quando serviva per preparare il carpione secondo le ricette di Giovanni de’ Rosselli[4] e di Bartolomeo Stefani[5] che permettevano una lunga conservazione di questo pesce prelibato.

 

          La conservazione del cibo non è l’ultimo dei problemi di ieri e spesso viene realizzata ricorrendo proprio all’olio che, pure a questo livello, contribuisce nell’elevare il tono della vita migliorando l’igiene degli alimenti.

 

          In tema di olio, del resto, era già affiorata fin dai tempi di Columella[6] una precisa consapevolezza igienica accanto ad una domanda sempre più smaliziata di prodotti di qualità per reggere il confronto con gli altri grassi, con il burro e con il lardo.

 

          Una battaglia evidentemente difficile che da un lato fa leva su gusti e sapori particolari, ma dall’altra non esclude i tiri mancini delle sofisticazioni[7].

 

          Oggi comunque in confronto al passato[8] si sono aggiunte, per la produzione e per il consumo dell’olio, nuove difficoltà che rimandano sia ai costi di una produzione ormai meccanizzata[9] che alle tecniche di presentazione del prodotto mediato da fatali interventi pubblicitari che non di rado trovano nella medicina[10] - segnatamente in tema di grassi alimentari - una complicità fuorviante e non sempre critica.

 

          Si aggiunga che il consumatore contemporaneo viene spesso smarrito con l’invito grossolano verso forme di “genuinità” improponibili o sedotto da miraggi[11] dietetici e salutisti privi di puntuale sostegno dottrinale.

 

          Basti pensare, al proposito, alla propaganda di ipotetici oli magri in luogo di quelli grassi; una propaganda che equivoca fra il concetto di grasso e il concetto di fluido.

 

          In questa situazione la fedeltà all’olio - fedeltà ambientale e culturale, paesaggistica e gastronomica - deve invece avvenire all’insegna della garanzia igienica e della tipicità del sapore.

 

          Una fedeltà complessa e vissuta che non può intendere l’olio come una banale sorgente di calorie[12].

 

          Tanto più quando, forse più che altrove, racchiude il sapore della terra come si può dire dell’olio del Veneto prodotto dagli ulivi che segnano il nord dell’agricoltura mediterranea[13].

 

          La tipicità dell’olio veronese è costantemente ribadita dal ‘500. “L’Oglio è prezioso - scrive il Valerini - tanto che da tutti i gran signori è ricercato per acconciar l’insalata”[14].

 

          Qualche decennio dopo il Solitro commentava: L’olio che possono dare le olive della nostra regione è veramente squisito... Purtroppo non tutto, né in ogni luogo di produzione egli è come potrebbe essere. E questo perché alla fabbricazione non possiedono quelle cautele che per così delicata manifattura si richiedono”[15].

 

          La presenza dell’olivo, nella storia vicentina, affonda le sue radici nei secoli più remoti.

 

          Lo si trova nominato, la prima volta, nel Regesto o inventario delle proprietà ezzeliniane del 1263, sia alle Ronche che nel Pederiva povese, fra il sorgo e le viti, nelle terre recentemente messe a coltura dagli uomini di Solagna e di Pove: ”due pecie terre cum olivariis ed arboribus in summa ripa” e ancora “una pecia terre vacue cum olivariis ed arboribus ad Pederivam” tre pezze di terreno, in parte a prato e in parte a coltura, e cioè appena un campo di terra in tutto, su almeno una quarantina di campi o poco più, fra la sponda del Brenta e la riva del Resel, e fra l’attuale confine di Solagna e l’antica contrada dei Covagioni o Grottoni...[16].

 

          Troppo poco, perché lo splendido frutto dell’olivo figuri fra i prodotti rappresentativi della terra povese, consegnati come canone di locazione o censo decimale al gastaldo ezzeliniano di Solagna.

 

          Ma, come dice un vecchio adagio latino: ”omnia rara praeclara!”. A prè Paolo di Cherso, inginocchiato ai suoi piedi per ricevere l’investitura della parrocchia di Pove, il vescovo di Padova Ildebrandino, il 28 gennaio 1352, consegnava per il suo sostentamento una quindicina di piante d’olivo in due piccoli appezzamenti di terra[17].

 

          I quindici olivi, consegnati nel Trecento al rettore di San Virgilio, rispunteranno, infatti, puntuali dagli inventari dei beni parrocchiali del secolo seguente: a partire da quello del 1431[18].

 

          Nell’estimo parrocchiale del 1443 la preziosa eredità dei padri appare ancora al suo posto e si sa anche quanto rende: dieci libbre d’olio all’anno che, unite alle trenta libbre del quartese (quarantesima parte del raccolto), fanno quaranta libbre d’olio in tutto[19].

 

          Ora, considerando che una libbra d’olio pesava kg. 0,486, si può dedurre che il parroco di San Vigilio, prè Nicolò, nel 1443 veniva a beneficiare di circa una quindicina di chilogrammi d’olio all’anno.

 

          Se poi si volesse attribuire al quartese di Pove l’effettiva, reale rappresentanza della quarantesima parte del raccolto della comunità, bisognerebbe concludere che l’olio d’annata, spremuto dai torchi povesi, doveva superare nel Quattrocento i 583 chilogrammi, attestandosi intorno ai se quintali.

 

          Nel 1461, i dati d’estimo parrocchiali, presentati alla curia vescovile di Padova da “misser prè Simon beneficiando in la villa de Pove in la chiesa de San Vigilio”, ci vengono offerti, non più in olio, ma in staia di pomelle: otto staia del quartiere, su un raccolto quindi che dovrebbe aggirarsi sulle 320 staia, cioè 93 ettolitri circa di pomelle e due staia dal beneficio parrocchiale, entrata del “campo praivo piantà de olivari in la villa de Pove appresso Gasparin da Semonzo”[20].

 

          Negli estimi parrocchiali successivi, che si prolungano sin oltre la metà del Cinquecento (1519, 1543 e 1569), le piante d’olivo del beneficio parrocchiale crescono di numero e il raccolto annuo delle pomelle del parroco giunge sino a quintuplicarsi (dieci staia all’anno); mentre quello del quartese parrocchiale precipita, a rotta di collo, talché il buon don Ottaviano nel 1569 si troverà costretto a spiegare la cosa al suo vescovo: ”Suolevasi per il tempo passato scuoder molto più. Ma al presente non si scuote per esser andati molti terreni in man de persone che non vogliono pagare”[21].

 

          Fra le tante persone “foreste”, a quanto pare, renitenti al dovere, c’era anche più di qualche patrizio veneziano, con cui bisognava stare attenti come fare... Ma non mancavano nobili bassanesi, arricchiti col commercio e approdati a Pove per spartire coi locali, oltre che la salubrità dell’aria e la dolcezza del paesaggio, anche la rara e preziosa ricchezza dell’olivo.

 

          Era senz’altro nobile bassanese e per giunta ex parroco di Pove quel reverendo don Bartolomeo Testa che nel 1559, per creare una mansioneria, con obbligo di messa quotidiana all’altare della cappella di San Giovanni Battista nella chiesa di San Francesco in Bassano, acquistava a Pove una riva prativa con circa cinquanta piante d’olivo, in contrà della Croce, devolvendone l’intera rendita, senza naturalmente defalcazioni di quartese parrocchiale, all’umile serafico fraticello fra Giampietro Dal Callesello di Bassano[22].

 

          Che i Povesi fossero, non gelosi, ma gelosissimi del loro olivo e del loro olio, ce lo può far capire anche il litigio storico con Cassola per l’alimentazione della lampada del Santissimo nella chiesa parrocchiale.

 

          Da sempre, infatti, le lampade della chiesa di San Vigilio venivano alimentate dall’olio di tutta la comunità.

 

          Ma nel 1580 Cassola, che è ancora ecclesiasticamente e civilmente unita a Pove, vuole staccarsi dalla chiesa parrocchiale e fare per conto suo.

 

          Fra le condizioni, che le vengono tassativamente imposte all’atto del distacco, c’è quella di continuare a mantenere di olio l’altare del Santissimo di Pove.

 

          L’accordo, però, com’era da aspettarselo, durerà solo qualche anno. Dal 1586 i Povesi se vorranno, come lo vorranno, sia ancora e sempre rispettato, dovranno rimettersi a giudici e tribunali...[23].

 

          L’usanza di alimentare con il frutto della terra le lampade del culto e della devozione cristiana è stata sempre sentita a Pove come un dovere di prim’ordine. Lo testimoniano le decine e centinaia di testamenti povesi trascritti nei protocolli dei notai di Bassano di tutti i tempi, che fanno obbligo di contribuire in natura col prezioso liquido dell’olivo alle “luminarie” della chiesa.

 

          A ispirare, poi, questi pensieri e questi gesti (e non solo questi, ma anche, ad esempio, l’idea di scolpire il miracoloso Crocifisso della storia povese ricorrendo al legno dell’olivo) sono il sentimento di riconoscenza a Dio e ai Santi, ma anche il bisogno di renderseli propizi per il buon andamento dei raccolti e il felice esito delle stagioni.

 

          Del resto, nessuno, come chi affida la sua esistenza al lavoro e alla generosità della terra, sa quanto costino i frutti della fatica umana e a quali rischi e incertezze siano esposti.

 

          Oggi i rischi e le incertezze per una coltura così pregiata, come quella dell’olivo, possono provenire soprattutto dall’inquinamento dell’aria e del suolo; una volta, invece, dipendevano quasi unicamente dal cielo e dalle stagioni.

 

          Ce lo ricorda la storia del passato povese colla serie ricorrente degli anni di carestia e di fame. A rovinare il raccolto del sorgo, del frumento o dell’uva, per uno o due anni, bastavano pochi minuti di tempesta.

 

          Ma basterà un quarto d’ora di grandine, come quella caduta la vigilia di San Vigilio del 1764, per mandare all’aria il raccolto di pomelle per anni e anni...

 

          Si dice che lo sgomento e la delusione patiti in quell’occasione dai Povesi avessero amareggiatogli animi al punto da renderli, per un bel po’, meno fervorosi e affiatati col Santo Patrono.

 

          Ma c’è anche chi dice che più d’un povese, allora, abbia preso le parti del Santo e bollato di dabbenaggine la scelta dei compatrioti che li portò a dipingere sulla miglior tela della loro chiesa un pioppo al posto di un olivo.



[1] Originario dell’Asia Minore, dove la coltivazione risale a 6000 anni or sono, l’olivo si estende al seguito di popolazioni fenicie e greche sia al nord Africa che alle isole e penisole mediterranee. (Di Marco G., L’olivo nella civiltà mediterranea, in Congresso internazionale sul valore biologico dell’olio d’oliva - Lucca 10-11-12 Ottobre 1969, Saluzzo 1970, 9; Christakis G., Fordyce M.K., Kurtz C.S., The biological and medical aspects of olive oil, in Proceedings of the III International Congress on the Biological Value of Olive Oil, Chaina 1980, 85). Plinio tuttavia sottolinea che, secondo quanto riferisce Teofrasto, intorno all’anno quattrocentoquaranta dall’edificazione di Roma... l’ulivo non nasceva discosto dal mare più che quaranta miglia. (Op. Cit. alla nota 25, lib. XIV, cap. I, 330).

La diffusione di questa coltura si rivela infatti lenta e faticosa e nel Medioevo è per lo più possibile solo là dove sorge il Monastero (Imberciadori I., Per la storia dell’olivo nell’agricoltura italiana, in L’olivo patrimonio nazionale, La bonifica, XXIX, 3,15, 1975).

Nonostante le difficoltà colturali l’ulivo non sfugge però all’insistente attenzione degli ingegni più illuminati e nel ‘700, ad esempio, il Muratori ne auspica la coltivazione fin nelle colline modenesi (Muratori L.A., Della pubblica felicità, XV, Modena 1749, 168). Nello stesso secolo il Gualandis ne incoraggia la coltura intorno alle colline di Cavriana, a sud del Lago di Garda, mentre il Landi, ispettore agrario in Milano, dà chiari suggerimenti per promuoverne la diffusione nei territori della Lombardia austriaca (Gualandis A., Dialoghi agrarj tenuti in Cavriana l’anno 1786, Mantova 1788, 183; Landi E., Metodo chiaro e facile per formare vivaj di ulivi per uso della Lombardia austriaca, ib., 267).

[2] Fra le prime raccolte giuridiche in cui si allude all’olio vanno segnalate le Leggi di Hammurabi (n.104, ed. Bonfante P., Milano 1903, 15). Anche Solone, alle origini della giurisprudenza greca, si occupa delle piantagioni degli olivi e del commercio delle olive (Plutarco, Solone, XXII, XXIV, in Le vite parallele, ed. Ribera A., Roma 1960, 146).

[3] La qualità delle olive di Verona era tanto celebrata da essere ricordata sia nel Dizionario del Chambres (Oliva, in Dizionario Universale delle arti e delle scienze, ed. It., Venezia 1749, VI, 37) che nell’Eencyclopédie (Art concernant l’olivier et l’huile qu’on en tire, in Encyclopédie Methodique, Padoue 1790, V, 2, 382). Sul valore nutririvo delle olive si sta oggi risvegliando un indubbio interesse alla luce di recenti indagini statistiche che indicano un incremento di consumo mentre quello dell’olio di oliva si mantiene intorno a valori quasi costanti (Fernandez M.J., Importance of research on nutritional value of table olives, in Proceedings of the III International Congress in the Biological Value of Olive oil, Chaina 1980, 471; Balatsouras G., Nutritive and biological Value of Grek Table olives, ib., 485).

[4] Il Rosselli suggerisce di lasciare i carpioni in salamoia per un paio di giorni e poi friggerli in buon olio per poterli conservare tre o quattro settimane. L’operazione di frittura si può anche ripetere. “Ma nota - commenta il Rosselli - che quanto più li friggi ogni volta perdono della loro sostanza e diventano peggiori: sicchè questo modo di rifriggerli è solamente per farli durare di più”, (De’ Rosselli G., Epulario, lib. IV, 117, ed. Riccio A., Roma 1973, 49).

[5] Secondo lo Stefani benchè i carpioni siano gentili e corruttibili, si conservano assai, e carpionati, s’infondono nell’olio, che così dureranno per tutto l’anno (Stefani B., L’arte di ben cucinare, in Cucina mantovana di principi e di popolo, ed. Brunetti G., Verona 1967, 45).

[6] Columella L.G.M., L’arte dell’agricoltura, lib. XII, cap. 52, trad. Calzecchi Onesti R., Torino 1977, 945).

[7] Assai antico è il tentativo di correggere il sapore dell’olio deteriorato; Costantino dà consigli “a levar via la puzza e a lavar la torbidezza e suggerisce di ricorrere al criandolo in modo da purgar l’oglio nel quale un sorgo, o topo o altro animale fusse caduto” (Op. Cit. Alla nota 12, fo. 35r e v.). da secoli, d’altra parte, si distinguono olii qualitativamente diversi: ogli vergini, ogli di polpa, ogli che sono tutti morchia (Garzoni da Bagnacavallo T., La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia 1601, 508). La tentazione della sostituzione e della sofisticazione appare quasi spontanea. Ancora alla fine del secolo scorso il Rengade, in un trattatello divulgativo sulla vita domestica, commenta che l’olio vergine, di un colore verde chiaro, è preferibile a tutti gli altri; sventuratamente però esso è quasi sempre misto ad olii inferiori di papavero od anche di ravizzone (Rengade G., I bisogni della vita e gli elementi della propsperità, ed. it. Milano 1889, 383). Anche il Mantegazza lamentava qualche anno prima che i venditori spesso sostituissero l’olio d’oliva con quello di sesamo(Op. cit. alla nota 41, 113). In tempi recenti la questione è andata ulteriormente complicandosi, in ispecie dopo l’autarchia, con l’introduzione di complesse classificazioni tanto che si è potuto parlare dell’olio d’oliva come di una “espressione giuridica convenzionale” (il “romanzo giallo” dell’olio d’oliva, in Le malattie del progresso, Milano 1963, 197).

[8] Fra le difficoltà del passato si ricordino le gelate, come quella del 1549 che ha colpito le campagne veronesi (Moscardo L., Historia di Verona, Verona 1668, 416).

[9] Sull’argomento è indispensabile fare riferimento a parametri complessi che tengano conto della tutela del paesaggio etc. e non limitarsi a considerare la sola olivicoltura integralmente meccanizzabile (Jacoboni N., La raccolta meccanica delle olive, in L’olio patrimonio nazionale, La bonifica, XXIX, 3, 91, 1975).

[10] Camporesi ha più volte richiamato l’attenzione sul mito degli olii che non induriscono le arterie e sulla compiacenza per la colata d’olio di semi gettata dalle multinazionali sul mercato (Op. cit. alla nota 38, 11, 249). Gli è che, come scrive Mann, una enorme massa di persone che, hanno superato l’età di mezzo, è stata convinta ad un regime insensato di restrizioni dietetiche per diminuire il rischio di cardiopatia (Mann G., Dieta - cuore: fine di un’era, Omnia Medica ed Therapeutica, 1, 6, 1979). La questione dell’influenza della dieta nelle cardiopatie è comunque ancora aperta e al proposito è, innanzi tutto essenziale tener conto della reale attuabilità e innocuità delle variazioni dietetiche che vengono suggerite (Glueck C.J., Mattson F., Bierman E., Dieta e coronaropatia: un altro punto di vista, Omnia Medica ed Therapeutica, 1, 17, 1979). La moda dei grassi poliinsaturi degli anni ‘50 (Mossè, Importance de l’alimentation sur l’equilibre de la santé,  Cahiers Laennec, 32, 2, 6, 1972) è infatti diventata oggetto di prudente meditazione. In particolare per quanto riguarda l’ac. linoelico, che ha suscitato tanto interesse, è stata avanzata qualche riserva per una somministrazione eccessiva ed è bene ricordare con Viola come la necessità di dover somministrare un ac. grasso essenziale... non deve portare al rischio che, per curare una malattia, si finisca col provocarne un’altra (Viola P. Sintesi conclusiva, in Atti del Simposio su “Il contenuto ottimale dell’ac. linoleico nella dieta” - Sestri Levante 1978, Novara s.d. 187). Piuttosto, l’impiego dell’olio di oliva quale unico grasso di condimento, come avviene nella cosiddetta “dieta mediterranea” in alternativa alle “diete ricche”, sembra in grado di ridurre il rischio di malattie cardiovascolari (Monacelli R., Olio di oliva vergine ad olio di oliva raffinato, La Rivista della Società Italiana di Scienza dell’Alimentazione, 13, 1, 81, 1984). E’ d’altra parte evidente che le abitudini dietetiche sono per lo più in rapporto con consuetudini di vita particolari che risultano altrettanto significative nei confronti del rischio in parola (Aravanis Ch., The greek islands haert study, in Proceedings of the III International Congress on the Biological Value of Olive Oil, Chaina 1980, 77; Ricci G., etc., Modificazioni delle abitudini alimentari dopo 4 anni di intervento preventivo nel progetto romano di prevenzione della crdiopatia coronorica, ib., 121; Mancini M., etc., Trattamento dietetico delle iperlipidemie: analogie con la dieta mediterranea, ib., 173).

[11] Laxenaire M., La société et le médicin, Paris 1983, 22 e seg.

[12] In tema di scienza dell’alimentazione va ormai prendendo corpo l’esigenza che il cibo venga considerato non solo in termini nutritivi, ma anche sociali. In altre parole la scienza dell’alimentazione deve essere intesa come una disciplina transdisciplinare, capace pertanto di operare la sintesi delle discipline in essa confluenti, quali l’antropologia, l’igiene etc. (Panatta G.B., La nutrizione umana. Una scienza transdisciplinare, Crescita, 6, 21, 1984). In questa prospettiva è evidente come gli aspetti culturali acquistino un’importanza di primo piano per quei cibi che, come l’olio e il vino e il pane, sono portatori di grande significato simbolico.

[13] Fraccaroli S., Situazione, problemi e prospettive dell’olivicoltura veronese, Verona 1984, 15.

[14] Valerini A., Le bellezze di Verona, ed. Marchi G.P., Verona 1974, 65.

[15] Solitro G., Benaco, Salò 1897, 171, 179.

[16] B.B.Vi., Archivio del Comune, Regesto dei beni del Comune di Vicenza del 1263.

[17] A.C.P., Feudi, B. 3, f. 132r°, 28 gennaio 1352.

[18] A.S.Vi., Atto Not. G. Carli, 12 marzo 1431.

[19] A.C.P., Estimo di Pove, B. 54, 26 ottobre 1443.

[20] A.C.P., Estimo di Pove, B. 54, 16 ottobre 1461.

[21] A.C.P., Estimo di Pove, B. 54, 1 settembre 1569.

[22] A.S.Vi., Atto Not. G. Gosetto, 27 dicembre 1559.

[23] A.S.Vi., Atto Not. L. Basso, 10 agosto 1586.